mercoledì 15 gennaio 2014

Everybody knows.

"Tutti sanno che hai problemi col cibo, come fai a pensare che non si veda? Perché piangi? Dov'è il problema?" - queste sono state le parole del mio ragazzo durante una conversazione rivelatrice.
Domenica è il mio compleanno e lui, tra le altre cose, ha organizzato una cena per lunedì perché giorni fa gli dissi che volevo andare in un ristorante di cui mi parla spesso (in stile anni '50, e hanno molti piatti per vegetariani).
Fin qui tutto bene.
La madre vuole che io e lui si faccia un dolce per domenica piuttosto che comprarlo.
Fin qui tutto bene.
Poi lui mi dice che lei sa che ho un disturbo alimentare...dunque perché dovrebbe pensare che io voglia preparare un dolce per me stessa?
Lui decide di preparare "seguendo la ricetta, da solo, senza nessun aiuto" il mio dolce preferito, nonostante lui non sappia fare nessun dolce a parte il tiramisù (che gli viene anche parecchio bene).
Alla mia avversione all'idea di dovermi preparare un dolce lui risponde mettendo il broncio e dicendo che non capisce perché io reagisca così. Decide di farmi la focaccia genovese, "che ti piace tanto, lo dici sempre", gli rispondo che non è necessario e dato che lunedì sera siamo a cena fuori preferirei evitare; dato che ci è rimasto male alla fine gli ho detto che può prepararmela.

"Perché deve sempre ruotare tutto intorno al cibo?" domanda seguita da frasi come "non capisco come possa condizionarti così tanto, come può non piacerti mangiare, come tu non veda come sei davvero". Si sforza di capire, in realtà non so dare neanch'io delle risposte.

Sento sempre più forte il bisogno di tornare a Milano, questa città è troppo piccola, muoversi è quasi impossibile e mi manca tutto. Vorrei che i miei genitori capissero che in questi 23 anni hanno sbagliato tutto, mi dicessero che mi vogliono bene e che gli manco. Vorrei tornare a casa.
Potrò sembrare poco riconoscente verso chi mi sta ospitando e mi ha tirata fuori dal fango in cui stavo annegando, ma non è così. Semplicemente vorrei smettere di sentirmi un peso, vorrei poter essere indipendente come lo ero prima di venire a vivere qui.

Vorrei anche tornare in psicoterapia, sono disperata...ho bisogno di qualcuno con cui parlare delle convinzioni che si stanno facendo spazio nella mia mente.
Ho capito che non posso guarire se non costruisco qualcosa di solido: un lavoro e un posto mio sarebbero un buon inizio. Inoltre ricominciare con la psicoterapia sarebbe la scelta più logica, ma l'unico modo sarebbe farla all'asl dato che i miei avevano deciso di non pagarmi più le sedute, ma dovrei andarci a Milano, dove ho la residenza, perché qui posso fare visite solo in prestazione occasionale. Non cambierò la residenza finché non avrò un lavoro e un appartamento/stanza.
Razionalmente so che dovrei voler guarire e poi pensare a tutte le altre sfere della mia vita, ma uscirne è molto più difficile di quanto sembri.Devo anche ammettere che, nella condizione in cui mi trovo ora, l'idea di non avere più la malattia a cui aggrapparmi mi spaventa. Può sembrare folle, o più probabilmente stupido, lo so. Ho troppa paura e mi sento costantemente fuori luogo. Preferisco risolvere i problemi legati al mio posto nel mondo che quelli relativi al mio mondo interiore. Mi preme di più costruire qualcosa all'esterno perché mi sento persa in un mondo che non mi riconosce come persona adatta, un mondo di cui io non mi sento parte.
Mi sembra di non avere nulla a parte il mio ragazzo, poche amicizie superficiali e la mia sofferenza.
Non ho molti amici qui, non ci sono persone con cui mi sento abbastanza in sintonia;
non ho degli spazi miei, non ho una stanza mia;
non ci sono luoghi che sento miei (come potevano essere l'albero sotto il quale andavo a leggere al Sempione, o la panchina del pianto al parco dietro casa);

non ho C., G. e M.;
non ho un lavoro e ho perso interesse per quelle che erano le mie passioni.
Ma soprattutto non ho S., che più che un cane è un fratello, lui che ad ogni taglio mi fissava e si sedeva di fianco a me, lui che ad ogni disastro alimentare con conseguenze appoggiava la testa sulle mie cosce e che ad ogni attacco di panico o svenimento mi leccava e si sdraiava di fianco a me.
Perdonami se ti ho lasciato con loro in questo momento per te difficile, scusa se dopo 11 anni insieme mi sono dovuta allontanare. Mentre ti penso mi viene solo da piangere, verrò a trovarti presto.


Mi sento persa, devo ritrovarmi.



2 commenti:

  1. Non ti sei persa. Sono domande più che legittime quelle che ti poni. La terapia te la consiglio vivamente, anche io la faccio da diverso tempo ormai. E se non ci fossero stati i miei due psicoterapeuti, forse non so a che punto sarei ora. La ricaduta è facile e poi c'è anche da dire che dai DCA non si esce mai completamente (il mio stesso psicoterapeuta-uomo me lo ha detto), ma la soddisfazione che si può avere anche solo nel superare un piccolo ostacolo che prima non pensavi neanche di poter affrontare perchè sono stati i DCA a crearlo..beh, è tutt'altra cosa, non trovi? Le paure ci saranno sempre, ma è normale. E' da eroine voler dire di ricominciare una terapia, ed io te lo auguro con tutto il cuore.

    Val.

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  2. Ai periodi di sconforto e desolazione sopraggiungono sempre i momenti di ripresa. E' che si devono volere, non per capriccio, ma per vivere davvero. Ne bisogna esser meritevoli... forza ...

    Ti stringo!!

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